Gionatan De Marco, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport della CEI indica le coordinate di senso dei Cammini di fede che attraversano l’Italia verso le loro innumerevoli mete: ricerca, guarigione, e trasfigurazione.

Un cammino di fede è un’esperienza di ricerca. Uomini e donne che portano dentro domande di senso, quelle che danno inquietudine perché richiedono di entrare nel mistero della vita per coglierne i segni di Luce, scelgono di percorrere un cammino per ascoltare il ritmo della vita. Ascoltare il ritmo della vita è mettersi in sintonia con la lentezza di Dio che non è ritardo, inefficienza, lungaggine ma sapienza paziente dei tempi dell’uomo e del cosmo, approfondita perizia dell’artista nei confronti della sua opera. Ascoltare il ritmo della vita è scoprire il proprio desiderio.

Camminare gli uni accanto agli altri con gli occhi e gli orecchi aperti, con aperto il cuore per sentire, ascoltare, accogliere sé e l’altro con la domanda cruciale nell’anima: Per chi sono io? È la domanda della vocazione, è la domanda della vita per chi cerca la gioia. Martin Buber, nel suo Il cammino dell’uomo[1] parte con una domanda: Dove sei uomo? Nel cammino di fede, in quel rapporto dialogico tra strada, ospite e Comunità ospitante, viene generata «una maggiore evidenza del senso della vita e del tempo, una più profonda percezione della propria soggettività come possibilità in divenire, aperta alla comprensione della complessità del mondo e insieme della rivelazione di Dio nella storia. Si ricerca dunque nel viaggio una verità più grande come risposta alle domande esistenziali e personali che abitano nel profondo dell’animo umano, almeno come ipotesi di riflessione seria sul caso intricato della vita»[2]. Rispondere è l’unico atto che permette l’impresa del cammino, la costruzione di qualcosa che abbia una direzione: sapere dove si è arrivati e come si è arrivati, per continuare… magari con qualche deviazione all’itinerario.

Un Cammino di fede è un’esperienza di guarigione. Ascoltare il ritmo della vita è accogliere la lentezza della storia, la parola dura di Pietro: «il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza»[3]. Non per tutti, infatti, la vita sembra fiorire, crescere, prosperare. Per alcuni i passi sono dolore, ingiustizia, divisione, egoismo, sofferenza, disperazione. Ma la strada – come nell’esperienza di Maria di Magdala nel mezzo del giardino[4] –  si fa proposta a voltarsi. In quel voltarsi è richiesto un cambiamento di prospettiva da parte di chi cammina: la sua meta non è più una città o quel santuario, ma la sua meta diventa l’esperienza di stare lì, sulla Via, lasciandosi accompagnare, illuminare e guarire dal Maestro che chiede di respirare primavera, instaurando una relazione nello stesso tempo evocativa e generativa. Evocativa, perché quella voce che pronuncia il suo nome apre al cercatore pagine di memorie calde, capaci di asciugare lacrime. Generativa, perché il cercatore si trova a rinascere nella speranza, trovando il senso di una vita che da giardino custode di morte diviene giardino generatore di vita nuova. Un senso che spinge a superare ogni ripiegamento, scegliendo la fraternità, quella «fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra de prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono»[5].

Un cammino di fede è un’esperienza di trasfigurazione. Solo rammendando continuamente gli strappi che nel tessuto di un’anima si possono verificare lungo l’esperienza di un pellegrinaggio vitale, si può dar vita ad un percorso unificato. La nostra anima deve essere unificata, ci dice Buber, coinvolgendo anche il nostro corpo nel progetto; cosa non semplice, soprattutto oggi. La forza di questo messaggio ne esce rinnovata: nel nostro mondo in cui viviamo quotidianamente frammentati e decostruiti, tenere lo sguardo sull’obiettivo, unire i puntini, che sulla settimana enigmistica ci sembra così facile, non sempre ci riesce; la sequenza può essere spiazzante. Ad un certo punto, ogni vero pellegrinaggio accompagna a crocifiggersi davanti ad una domanda: A che scopo?, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? Ed ecco la risposta: Non per me. Perciò anche prima si diceva: cominciare in sé stessi, ma non finire con sé stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. Volgersi verso gli altri, quindi; non occuparsi più di sé. Dopo aver mondato il nostro luogo e tracciato il cammino, il passo successivo e ineludibile, senza il quale non siamo compiuti, è l’incontro con l’altro, con il TU/tu.

Da “Luoghi e Cammini di Fede“, n.29/2020

[1] Buber M., Il cammino dell’uomo, Ed. Qiqajon, Magnano (BI) 1990.

[2] Mazza C. (a cura di), Sulle strade dell’anima. Per un turismo dal volto umano, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004, p. 101

[3] 2Pt 3,9

[4] Cfr. Gv 20,11-18

[5] Francesco, Evangelii gaudium, 92